Inquinamento mediatico

Articolo 21 della Costituzione della Repubblica Italiana:

“Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione.”

“La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure.”

[…]

Sono vietate le pubblicazioni a stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni contrarie al buon costume. La legge stabilisce provvedimenti adeguati a prevenire e a reprimere le violazioni.

Inizio con una premessa, doverosa: questo che leggerete è solo un tentativo.

Il tentativo di capire una deriva, intesa come direzione non voluta, che sta prendendo la società civile italiana per quanto riguarda la politica, i media, la pubblicità e la censura. Compito improbo, senza dubbio, infatti l’articolo sarà lungo e complesso.

Vi chiedo lo sforzo di accompagnarmi in questo viaggio e se vi va, di darmi qualche suggerimento per ampliare gli argomenti.

Per provare a capire e contestualizzare la situazione fin dal principio ho messo nell’introduzione l’articolo 21 della Costituzione: in pratica, dopo la Seconda guerra mondiale, quando i Padri Costituenti scrissero uno dei due cavalli di battaglia di Benigni, pensarono (giustamente) che dopo un ventennio di “privazioni”, la stampa dovesse tornare libera.

“Reporters sans frontières” è un’organizzazione non governativa internazionale per la libertà di stampa. “Nata nel 1985, riconosciuta dall’ONU, è attiva nella difesa di giornalisti e collaboratori dei media perseguitati o imprigionati, nella lotta alle limitazioni della libertà di stampa, nel miglioramento della sicurezza dei giornalisti nelle aree di conflitto.” (“Reporters sans frontières nell’Enciclopedia Treccani”, nda)

Tutti gli anni “RSF” stila una classifica sulla libertà di stampa (la potete trovare qui) e l’Italia nel 2022 ha perso ulteriormente terreno, essendo posizionata al 58° posto al mondo, contro il 41° dell’anno prima. In Europa va anche peggio: siamo davanti al blocco dei paesi ex sovietici (ma Croazia, Cechia, Slovacchia e Moldavia ci sono davanti), ma siamo dietro a tutte le nazioni occidentali (Francia, Germania, UK, Spagna, Austria, Svizzera, Benelux, Portogallo, Irlanda), per non parlare degli stati scandinavi, che dominano questa classifica.

Come è mai possibile che una nazione tutto sommato libera sia messa così male su uno dei cardini della democrazia come la libertà di stampa? Per capirlo devo parlarvi di Tv, DC e spot. No, non sono impazzito: Tv sta per televisione (e censura), DC sta per politica (e ingerenza) e spot sta per pubblicità (e messaggio).

Andiamo in ordine, partendo dalla situazione italiana negli anni ’50 del secolo scorso.

In Italia le trasmissioni televisive iniziarono nel gennaio 1954, mandate in onda dalla Rai, ente concessionario che deteneva il monopolio televisivo nazionale e che era soggetta al controllo del governo; quindi, del partito di maggioranza che all’epoca era la Democrazia Cristiana.

Ebbene sì (mi rivolgo ai giovani lettori): mentre in UK (1937) e negli Stati Uniti (1941) già avevano dei “miti” televisivi, da noi si iniziava appena. Tra l’altro, nel 1954 in Italia esistevano solo 24 mila apparecchi televisivi, a fronte di 48 milioni di abitanti. E c’era, come detto, il monopolio Rai. Questo durò fino al 1962, quando la situazione socioeconomica era sicuramente migliorata, iniziava il boom economico e gli apparecchi televisivi sfioravano i 6 milioni.

Nel ’54, come detto, iniziarono le trasmissioni, che erano fondamentalmente di “informazione”, con telegiornale, rubriche divulgative e la “domenica sportiva” che la facevano da padroni. Si può subito notare che l’informazione sportiva era già molto importante, anche se molti pensavano che la Tv mai e poi mai avrebbe potuto sostituire la carta stampata e soprattutto la radio, che era il mezzo più veloce, allora, per dare le notizie.

Dal 1962 con l’introduzione della tecnologia americana Ampex (la registrazione magnetica), divenne possibile velocizzare il processo, trasmettere le immagini in movimento (fino ad allora c’erano solo foto dietro i giornalisti) e si diede la possibilità di ricontrollare le notizie da mandare in onda (a cui dunque si potevano effettuare dei tagli). Vista l’influenza politica sulla Rai, la possibilità di montaggio delle registrazioni che portò l’Ampex si tramutò in una continua operazione di censura e patteggiamento tra gli uffici dei partiti e quelli Rai per la decisione dell’interpretazione da dare alle notizie.

Alla fine degli anni Cinquanta anche la televisione italiana cominciò a trasmettere messaggi pubblicitari, ma mentre all’estero, avveniva attraverso spot e sponsorizzazioni, in Italia si percorse una strada assolutamente originale. La pubblicità fu ammessa, ma esclusivamente all’interno di uno spazio dedicato, il famoso “Carosello”.

“Alle aziende che intendevano usufruire di questa nuova opportunità, venne richiesto di gratificare lo spettatore, che si riteneva venisse “disturbato” dalla presenza della pubblicità, con qualcosa che avesse una connotazione spettacolare.” (“Dispensa redatta dal Prof. Marco Galdenzi – DELCO s” – nda) In tal senso venne imposto che i filmati fossero composti da: 100 secondi di spettacolo (in cui il prodotto non poteva assolutamente essere presente) e 35 secondi per il cosiddetto “codino” commerciale.

Per i vincoli imposti, Carosello non sempre si rivelò uno strumento efficace. In alcuni casi, infatti, la scenetta presentata o la forte personalità del personaggio impiegato monopolizzavano l’attenzione dello spettatore generando un effetto di “vampirizzazione” sul prodotto che non veniva memorizzato. (“Dispensa redatta dal Prof. Marco Galdenzi – DELCO s” – nda)

Quelli di noi che hanno visto Carosello, ricordano Franco Cerri, Ernesto Calindri, Nicola Arigliano, Paolo Ferrari, Gino Bramieri e Totò (e tantissimi altri), ma non sempre si riesce a ricordare COSA pubblicizzassero.

Dopo gli anni del boom economico, tuttavia, il mondo della pubblicità, in tutti i paesi industrializzati, visse un periodo di crisi che era anche economica, ma soprattutto culturale. I pubblicitari, infatti, subirono numerose critiche da parte degli intellettuali, dai giovani e da numerose persone che all’epoca condividevano le ideologie anticonsumistiche. Queste ultime, infatti, rimproveravano a chi promoveva i prodotti di creare negli individui bisogni di consumo “falsi” e “superflui” Alla fine degli anni ‘60, anche in Italia arrivarono i primi segnali di tale contestazione verso il mondo della pubblicità. (“Aspetti Evolutivi – economia – ““AADDVVEERRTTIISSIINNGG …” – nda)

Nel frattempo, nel 1962 era nata la seconda rete nazionale (Rai 2) in cui, con il progetto di informazione concorrenziale tra le reti introdotto dalla Riforma Rai del 1975, venne inserito il secondo notiziario nazionale, il Tg2. Più che concorrenza interna (il Tg1 rimaneva comunque il più visto), era un tentativo di dare voce anche ad altri schieramenti.

La lenta presa di coscienza del mezzo di comunicazione di massa senza precedenti che rappresentava la televisione e il potere sul pubblico che derivava dalla sua gestione, infatti, la fecero diventare ben presto argomento di grande conflitto e contrattazione per i partiti, dando vita alla fase che venne definita “Governo della televisione”.

I giornalisti, in questa fase, erano più che altro speaker, attori a cui era richiesta una perfetta dizione e un’esposizione asettica che non lasciasse intendere il sentore di un’opinione personale e al quale non erano affatto richieste competenze giornalistiche in quanto solo rappresentante visivo delle notizie. Il timbro sicuro scelto per la lettura trasmetteva l’autorevolezza informativa che la Rai voleva per il proprio notiziario.

I primi veri giornalisti formatisi a questa scuola furono i migliori, perché alla cultura richiesta dal mestiere, associarono questa “neutralità” di base, ed oggi se ne sente la mancanza. Intanto, Carosello chiudeva.

Nel ’73, a causa dell’austerity imposta dalla crisi petrolifera, la Rai anticipò il termine dei programmi e di conseguenza anticipò di mezz’ora il telegiornale, che passò dalle 20:30 alle 20:00. Carosello, che veniva trasmesso quotidianamente dalle 20:50 alle 21:00 (tranne il Venerdì Santo e il 2 novembre) dal 2 dicembre 1973 fu trasmesso alle 20:30 (e noi bambini si andava a letto prima, porca pupazza).

Nel 1976 una sentenza della Corte costituzionale sancì la fine del monopolio Rai, e il 1° gennaio del 1977 chiuse Carosello. Nel 1980 in Italia vi erano circa 500 televisioni private, ma non avevano ancora la forza per farsi sentire a livello nazionale.

“Lo sviluppo del sistema televisivo italiano, ed in particolare modo delle televisioni private e commerciali, resero disponibili maggiori spazi il che consentì a molti nuovi utenti, anche a quelli con budget di dimensioni meno elevate, di utilizzare il mezzo televisivo.” (“Evoluzione – extra integrativo non essenziale – StuDocu” – nda). Il conseguente aumento degli utenti determinò una significativa crescita degli investimenti pubblicitari, che passarono da circa 360 miliardi di lire del 1974 ai quasi 3.200 miliardi del 1984.

Il modo di veicolare i messaggi (pubblicitari) intanto cambiava: lo scenario economico vide una ripresa economica, con un conseguente aumento della domanda e nel mercato si manifestarono alcune tendenze che si consolidarono sino ai primi anni ’90.

Un bravissimo blogger (o tiktoker? mah!) ha provato a fare una sorta di storia dell’evoluzione del messaggio pubblicitario in Italia a partire dagli anni ‘50, molto interessante come approccio (lo trovate qui, lui si chiama Giacomo Panozzo ed è molto bravo e simpatico). In pratica lui ha notato come il focus del messaggio pubblicitario sia passato dal prodotto al consumatore comunicando via via in maniera differente il messaggio stesso.

Prima, al tempo del carosello, come detto, il prodotto era relegato alla fine del messaggio pubblicitario.

Su questo vorrei fare un inciso di tipo “sociale”. Nell’immediato dopoguerra e pressappoco fino all’inizio degli anni ’60, in Italia si stava ricostruendo dopo la devastazione della guerra, e l’economia era fortemente contratta. In pratica, chi aveva un’attività commerciale aveva la fila di clienti, la domanda era altissima e l’offerta era quella che era. Non c’era la necessità di pubblicizzare per aumentare i propri giri di affari.

Negli anni Sessanta, invece, il boom creò nuove “necessità” e la gente iniziò a comprare anche il superfluo. Negli anni ’80 il prodotto tornò ad essere al centro del messaggio, ma non più come un oggetto necessario, ma come un oggetto che fa diventare più “fighi”: chi non ricorda “l’uomo che non deve chiedere mai”?

In un forum sulla comunicazione tenutosi a Milano nel 1985, provarono ad ipotizzare gli scenari futuri:

“I prodotti oggi sono standard e la gente lo sa: il valore aggiunto che i prodotti oggi possono avere è soltanto un valore aggiunto di comunicazione, di immaginario, di fantasia, di poesia e quindi di spettacolo.” (“Corso di laurea in Economia e Metodi quantitativi per le … – UniTE”) (Marco Magnani, Direttore Creativo RSCG Italia)

“La nostra è una comunicazione che sempre più dovrà essere seducente per essere convincente, anche perché solo così riuscirà ad essere accettata… lo spettacolo della pubblicità diverrà formalmente più lieve, ma nella sostanza più sofisticato, e perciò più determinante di oggi per la vita stessa delle marche.” (Marco Sorrentino, Coordinatore creativo SSC&B Lintas)

Come dicevo prima, nel 1975 ci fu la legge di Riforma della Rai che stabilì l’indipendenza delle testate giornalistiche della Rai. Sia nei canali radiofonici che in quelli televisivi il palinsesto venne diviso fra la direzione giornalistica che si occupava dei telegiornali, delle rubriche informative o di approfondimento e degli eventi in diretta, e la direzione dei programmi che si occupava del resto.

Il controllo della società rimase competenza del settore pubblico ma passò dalle mani del governo a quelle del Parlamento, nell’intento di riuscire ad assicurare una televisione più pluralista, obbiettiva e imparziale nel fornire l’informazione al pubblico. La riforma previde inoltre l’introduzione di un nuovo canale (Rai3) che si sommava alle già esistenti Rai1 e Rai2, anche per dare spazio all’informazione regionale che fino ad allora non era stata considerata.

In realtà, quello che avvenne fu una vera e propria lottizzazione: Rai1 alla Democrazia Cristiana, Rai2 al Partito Socialista e Rai3 al Partito Comunista. Di conseguenza, anche l’informazione divenne uno specchio di questa spartizione. C’era una cosa che la politica di allora aveva sottovalutato, però: l’avvento delle Tv commerciali.

Già nel 1974, con il consenso alla ripetizione di programmi televisivi stranieri in Italia (quelli della mia generazione sono cresciuti con Koper Capodistria – ah, quanti ricordi- e con la Tv Svizzera) la Consulta aveva iniziato questo processo, ultimandolo nel 1976 con la sentenza 202 che consentiva l’emittenza privata, anche se inizialmente solo a livello locale.

L’emittenza locale sfruttò il telegiornale per consolidarsi sul proprio territorio ed avere un’arma di contrattazione con la politica. Un giovane imprenditore milanese, in cerca di un canale dove pubblicizzare la vendita degli appartamenti da lui appena costruiti, comprò un canale via cavo sull’orlo del fallimento, “Telemilanocavo”, al prezzo simbolico di una lira (in cambio del risanamento dei debiti), trasformandolo poco dopo in “Canale 5”.

Dopo una rapida espansione nel Nord Italia, nel 1982 Silvio Berlusconi comprò anche “Italia 1” e l’anno successivo rilevò dal gruppo Mondadori “Rete 4”, creando di fatto un duopolio televisivo con la Rai, con la nascita del gruppo “Mediaset”, e con un escamotage (videocassette che dalla sede milanese venivano distribuite ad emittenze locali associate di altre regioni) violò di fatto la legge vigente sul monopolio rimasto della Rai per la trasmissione radiotelevisiva nazionale.

Le reti Mediaset furono a quel punto oscurate e potevano trasmettere solo in Lombardia; l’allora Presidente del Consiglio, Bettino Craxi, amico di Berlusconi, dovette tornare in Italia in fretta e furia per sbloccare la situazione. E da allora nacquero leggi e leggine fatte ad hoc per mantenere lo status quo, con la situazione in continua evoluzione, come vedremo, grazie all’ingresso nel mercato delle televisioni satellitari.

Berlusconi, piaccia o non piaccia, ha rivoluzionato il mercato televisivo italiano, ma prima di arrivare a lui al suo modo di pensare la televisione, vorrei tornare un attimo al discorso censura.

Chi, delle nuove generazioni, guarda oggi la Tv farà fatica a credere (a meno che qualcuno che glielo abbia raccontato) che fino a qualche anno fa, sicuramente fino alla fine degli anni ’70, le ballerine portavano la calzamaglia per non mettere in mostra le gambe “nude” e il linguaggio doveva essere controllatissimo: parole come amante, parto, vizio, verginità, talamo, alcova, amplesso erano assolutamente vietate.

Non si poteva dire “membro del parlamento” o “in seno alla commissione”, non si potevano dire le parolacce e non si potevano prendere in giro le personalità politiche o religiose; ne sanno qualcosa i vari Tognazzi, Vianello, Tortora, Fo, Grillo e Benigni, allontanati dalla Rai per vari motivi, tutti abbastanza ridicoli a rileggerli oggi.

Negli anni ’80 sembrava però che il mondo stesse cambiando: trionfava l’edonismo, il corpo andava mostrato, e le Tv commerciali non esitarono a sfruttare i “pruriti” di un popolo tutto sommato bigotto come quello italiano.

Su questo, mi permetto di fare un altro inciso. Per lavoro ho vissuto in Puglia, dove sono nato, in Campania, nel Lazio, in Emilia, in Romagna, in Lombardia e in Alto Adige. Poi sono stato, senza viverci stabilmente, anche in Valle D’Aosta, in Piemonte, in Liguria, in Sardegna, in Toscana, in Veneto, in Abruzzo e in Sicilia. E in ogni regione ho visto luoghi così diversi tra loro che a volte si fa fatica a pensare che appartengano allo stesso Paese.

Per non parlare delle persone! Gente così diversa da un luogo all’altro. Per quello ogni qualvolta parlo di popolo italiano, sto forzando un concetto. Perché, pur mantenendo una base comune, che io individuo nella “pietas”, intesa alla latina, cioè la devozione religiosa, il sentimento d’amore patriottico e di rispetto verso la famiglia, oltre al valore intrinseco e gerarchico che essa rappresentava nel mondo ellenico (pensiero personale, sia chiaro), la nostra forza sta proprio nella diversità, cosa che negli anni della leva obbligatoria, ad esempio, si notava tantissimo.

D’altronde, cos’hanno in comune un contadino di Catania e un montanaro di Bolzano se non la nazionalità sulla carta d’identità? Eppure, quando sono stato in missione, due miei colleghi erano proprio due così, e vi assicuro che erano entrambi straordinari, sia come persone sia come militari, oltre che molto amici tra loro.

Detto questo, negli anni ’80, con l’avvento della televisione “libera”, la censura si allentò. Berlusconi sfruttò i suddetti “pruriti” trasmettendo “varietà” scollacciati, nei quali non vi era il minimo pudore. Parallelamente, con il suo Tg5 provava a dare un taglio più legato alla cronaca che alle notizie generaliste che avevano dominato sui Tg della Rai.

L’Osservatorio di Pavia realizzò nel 2009 una ricerca sulla presenza della politica nell’informazione televisiva delle reti pubbliche Rai; ebbene, la ricerca, che potete trovare qui, evidenziò un effettivo aumento dello spazio dedicato alla cronaca. Essa, infatti ricopriva, al passare degli anni, sempre più tempo nei telegiornali, a scapito della politica e dell’informazione pura.

Tra l’altro, confrontando questi dati con l’estero, emerse che la politica era presente nei telegiornali italiani il doppio che negli altri paesi (34,8% contro il 16,5%). La differenziazione più interessante fatta con gli altri paesi era però qualitativa; se nei paesi esteri si dava (e si dà) attenzione alla politica in occasione di eventi rilevanti principalmente legati all’attività di governo, nei telegiornali italiani la politica è quotidianamente presente.

Con tutto quel che ne consegue: una volta la politica si occupava di governo della cosa pubblica senza che il popolo avesse ben presente chi fossero gli attori principali delle cose che venivano fatte, mentre ora si conosce vita, morte e miracoli di ciascun deputato, senatore o politico locale, molto spesso senza sapere, però, quali siano le cose che porta avanti nelle azioni di “governo”.

Questa spartizione dei tempi informativi politici italiani non è però sempre stata così: all’origine dell’informazione politica televisiva il 90% dello spazio era occupato dalle sole azioni politiche. La diluizione del tempo occupato dagli atti a favore delle opinioni può spiegarsi attraverso la lenta trasformazione avvenuta nella televisione come mezzo ospitante dell’informazione. Da monopolio pubblico in origine poteva non curarsi degli indici di ascolto per privilegiare il rigore dell’informazione, successivamente si è trovata a far parte di un ambiente concorrenziale dove riuscire a tenere l’attenzione dei telespettatori è fondamentale.

Questo richiede una spettacolarizzazione dell’informazione, che ha anche il dovere di intrattenere lo spettatore al fine di non perderlo. Un’altra trasformazione responsabile è quella dei soggetti politici, agli inizi delle trasmissioni televisive essi continuavano l’attività elettorale principalmente tramite gli organi partitici.

Parallelamente, le trasmissioni televisive “osavano” sempre di più, spingendo i limiti senza temere interventi di censura, in nome della libertà di espressione.

Quello che mi fa sorridere quando ripenso a quel periodo è che i giovani di allora, che oggi sono chiamati boomer e vengono tacciati di bigottismo (e dei quali faccio parte anche io), in realtà non avevano preclusione nei confronti di nessuno: attenzione però, non sto facendo il solito discorso de “ai miei tempi eravamo più tolleranti”!

Perché non è vero che eravamo più comprensivi (basta guardare il film Philadelphia del 1993 per capire come, ad esempio), però eravamo forse più liberi. Anche liberi di dire o fare cose sbagliate. Certo, è giusto che le minoranze o le categorie che fino ad un certo punto erano “svantaggiate” vengano aiutate e supportate, però ora si sta toccando l’estremo opposto. Ma non è l’argomento di questo articolo, quindi passo avanti.

Riepilogando: la Tv, prima solo Rai ed estremamente tenuta a bada dalla censura di governo, ad un certo punto si è vista spodestata dalle tv locali e commerciali; di conseguenza, sia la censura, sia le pubblicità sono molto cambiate.

Come raccontavo, le pubblicità degli anni ’80 magnificavano il prodotto come un “mezzo” per essere migliori, mentre negli anni ’90 il messaggio cambiò: la crescita economica registrata nella seconda metà degli anni ’80 infatti si esaurì progressivamente nei primi anni Novanta. Le famiglie italiane si trovarono così a vivere una situazione di duplice disagio: da un lato la diminuzione del potere di acquisto del reddito disponibile, e dall’altro l’incertezza sul futuro.

Il veicolo pubblicitario puntava sull’utilità dei prodotti pubblicizzati: se prima il messaggio era “se usi il prodotto sei più figo”, ora diventava “se usi il prodotto sei più intelligente”, perché stai utilizzando un prodotto utile e non stai spendendo tanto. In quel periodo, in Italia sono nati anche i discount.

 Anche in Mediaset, come in Rai, ci fu una scelta precisa sul tipo di target di ciascun canale: Canale 5 scelse di rivolgersi principalmente alle famiglie medio-borghesi, a differenza di “Italia 1”, che scelse un pubblico più giovane, e “Rete 4” con un taglio che ricercava l’attenzione femminile e degli anziani.

Anche i rispettivi notiziari di informazione si caratterizzarono per questa “spartizione” del pubblico di riferimento di ciascuna rete, con una novità rispetto alla Rai: infatti, gli interventi fatti dalla conduzione non si limitavano all’introduzione dei servizi, ma facevano parte del corpo del telegiornale, spesso aggiungendo un commento e un giudizio sull’informazione data, cosa che lo avvicinava alla dinamica informativa commerciale americana e al ruolo del giornalista come “anchorman”.

In quel periodo nacquero in Italia anche i cosiddetti “talk-show”, inventati dagli americani negli anni ’50, che erano un misto di intrattenimento e informazione, spesso con conversazioni (talk) che toccavano anche la sfera privata degli intervenuti, ancorché personaggi politici: molto importante, in quel caso, il ruolo del moderatore-intervistatore.

L’inizio degli anni ’90, con Tangentopoli e con tutto quel che ne consegue, a livello politico e sociale, sono un altro frangiflutti di queste dinamiche: la nascita di una nuova politica in contrapposizione ai vecchi partiti si riflette sia sulla Rai, in quanto lottizzata, sia su Mediaset, in quanto di proprietà di Berlusconi, a quel punto non più imprenditore ma politico.

Cambiano la figura di giornalista, che in sede di conduzione vedrà necessario acquisire la capacità di spettacolarizzazione delle notizie. Il presentatore divenne fondamentale all’interno del programma d’approfondimento diventandone spesso il volto e acquisendo dei poteri che prima non gli erano concessi.

Cambiò il modo di fare pubblicità, passando totalmente sul consumatore e sul consumo, tornando, in un certo modo, alla pubblicizzazione di prodotti fintamente necessari (ma in realtà superflui).

Cambiò il modo di fare censura, ora di nuovo pilotata dalla politica, che a tratti ebbe modo di commettere ingerenza nella libertà di espressione dei media. Capita spesso in quegli anni che la stampa diventi ancora più lottizzata di quanto fosse la Rai degli anni ’60, non dai partiti, però, ma dai singoli editori, spesso politici o con agganci e aderenze politiche.

Quello che diede ancora uno scossone allo status quo fu l’ingresso nel mercato delle televisioni satellitari. “Infatti nel 1994, negli Stati Uniti, la Hughes Electronics diede avvio al primo servizio di TV digitale via satellite con la Direc TV mentre in Italia circa un anno dopo seguirono i servizi digitali satellitari di Telepiù.” (“Storia della televisione – Wikipedia” – nda)

Ciò ampliò ancora di più l’offerta, ma non solo: la qualità, con la trasmissione in HD (alta definizione) iniziò a necessitare di strutture di trasmissione e di ricezione sempre più sofisticate.

La società, nel frattempo, si trovava a combattere altri tipi di battaglie e, come raccontavo prima, prendevano sempre più piede le battaglie delle minoranze, a cui si contrapponevano le difficoltà dei governi nel combattere battaglie più importanti, come quelle contro la criminalità organizzata e contro il terrorismo.

Il messaggio pubblicitario nel nuovo secolo sposta ancora il focus: dal consumatore, le pubblicità iniziano a “santificare” la missione delle aziende pubblicizzate; in pratica, viene inteso che se tu acquisti un prodotto, non lo fai perché è buono (messaggio degli anni ’60-’70), né perché ti fa diventare figo (messaggio anni ’80-’90), o perché utile (‘90-2000) ma perché l’azienda che lo produce è attenta ai tuoi bisogni, ai bisogni dell’ambiente e della società. Il che è evidentemente una stupidaggine nella maggior parte dei casi, ma tant’è, evidentemente il pubblico se la beve.

Stesso discorso per la censura, che prende un’aura di “giustizia”, col nome di “politicamente corretto”, quando è spesso il contrario.

Nel primo decennio degli anni 2000 entra in gioco un altro attore, che trasformerà ancora una volta il mondo circostante: il web.

Già dagli ultimi anni del secolo scorso si capiva che internet avrebbe cambiato il mondo, ma le vere potenzialità vennero fuori dopo, con la nascita dei social media, che di fatto connettevano tutti con tutti, in una sorta di “piazza” o di “bar” virtuale, dove spesso a farla da padroni sono quelli che si nascondono dietro un nickname e non si sa precisamente chi siano.

E qui si arriva all’ultimo punto che vorrei toccare: il cambiamento che il web ha portato in tutti noi.

Il “downhill” è la disciplina che sfrutta la gravità su percorsi prevalentemente in discesa, caratterizzati da curve in contropendenza e con sponde, salti, rocce, radici, prati aperti e sottobosco: l’avvento di internet io lo immagino così, senza però la possibilità di frenare.

Una volta che sei in discesa, vai sempre più veloce. Ed è quello che è successo alla cosiddetta “IT”, cioè “information technology”. Ormai è infatti impensabile svolgere le operazioni quotidiane senza una connessione a internet. E da quando esistono gli smartphone, la situazione ha avuto un’ulteriore accelerata.

I motori di ricerca che forniscono informazioni su tutto praticamente in tempo reale, i social media che connettono in una mega rete tutto il mondo, l’intrattenimento on-line per usufruire di prodotti che una volta erano relegati in un punto fisso della casa, gli acquisti da “remoto” che ti permettono ricevere praticamente tutto a casa, i nuovi lavori legati alla rete (e non solo il “telelavoro”) che sono in continua evoluzione e cambiamento, sono solo alcuni degli aspetti della rivoluzione alla quale stiamo assistendo.

Che, come tutte le rivoluzioni, ha ovviamente un lato oscuro.

L’altro giorno, con dei miei “amici virtuali”, cioè con dei profili che conosco esclusivamente on-line, parlavamo di calcio e uno di loro ha espresso il pensiero di come sia diventata

“…una festa trasformata in una guerra. È questo il calcio che vogliamo lasciare ai nostri figli?”

Io ho commentato:

“Mi sto chiedendo, avendo frequentato gli stadi negli anni ‘80 e ‘90, quando sia diventata una guerra. Gli ultras c’erano già, gli hooligans mettevano a ferro e fuoco gli stadi, ma non c’era questa atmosfera di odio assoluto anche fuori dal campo di gioco, di tutti contro tutti.”

Il commento di un altro utente è stato illuminante:

“Non esistevano i social, le discussioni le facevi al bar con gente che conoscevi da una vita e alla fine la chiudevi con una birra in attesa della partita successiva.”

Esatto! È proprio quello il punto. Urge a questo punto un ripasso generale dei punti toccati:

  1. Anni ’50-’60: monopolio di una TV di stato che era fondamentalmente gestita dalla Democrazia Cristiana, partito conservatore e bigotto (e la censura ne era una conseguenza); la pubblicità in TV era poco orientata al prodotto e quasi per niente al consumatore; i giornalisti erano speaker molto preparati ma asettici.
  2. Anni ’70: allargamento delle reti Rai, lottizzazione dei partiti sui tre canali; pubblicità orientata al prodotto, ma poco al consumatore; i giornalisti erano politicamente schierati ma molto preparati e professionali.
  3. Anni ’80-’90: ingresso delle TV locali, creazione duopolio Rai-Mediaset; pubblicità incentrata sul consumatore; giornalisti sempre più intrattenitori e meno speaker.
  4. Anni ’90-2000: nascita del web; pubblicità incentrata sull’utilità; giornalismo sempre più specializzato e schiavo della “linea editoriale”.
  5. Nuovo secolo: sviluppo dei social media; pubblicità incentrata sull’etica; corsa alla notizia in esclusiva, a scapito della veridicità (fake news).

La conseguenza di queste trasformazioni successive è che adesso abbiamo troppe notizie e troppe voci discordanti, che portano all’annullamento di tutte le notizie: per spiegare meglio cosa intendo, anche col titolo di questo pezzo, vi faccio un esempio astronomico.

Mia moglie è nata il 10 di agosto, San Lorenzo, giorno noto a molti perché titolo di una poesia di Giovanni Pascoli (San Lorenzo, io lo so perché tanto – di stelle per l’aria tranquilla – arde e cade, perché si gran pianto – nel concavo cielo sfavilla. e così via; leggetela, se non la conoscete, è molto bella – nda) e perché la sera si aspetta il fenomeno delle cosiddette “stelle cadenti”.

In realtà, quelle che noi chiamiamo stelle cadenti non sono stelle ma sciami meteorici e più precisamente, nel caso della notte del 10 agosto, sono frammenti della cometa Swift Tutle che ogni anno in quei giorni passa molto vicina al Sole rilasciando frammenti che invadono il cielo e sono visibili all’occhio umano.

Per tradizione, vedendo una scia nel cielo, si esprime un desiderio; a quanto pare però in futuro ciò non sarà praticamente più possibile. Perché? Per l’inquinamento luminoso. Cos’è? L’inquinamento luminoso è la presenza eccessiva di luce artificiale durante la notte. E perché è un problema?

Intanto, non rende agevole l’osservazione del cielo notturno, quindi anche le Perseidi (gli sciami meteorici di cui sopra): ma pensare che l’inquinamento luminoso sia un danno solo per l’osservazione notturna è un grosso limite.

Infatti, gli esseri umani, ma anche gli animali, sono abituati al cosiddetto “ritmo circadiano”, cioè l’alternanza del ciclo giorno-notte, che funziona come una specie di “orologio” biologico interno per il nostro corpo.

Una quantità eccessiva di luce artificiale durante la notte può scombussolare questo delicato ciclo e causare problemi del sonno, depressione e indebolimento del sistema immunitario. Anche per gli animali nascono problemi per quanto riguarda la riproduzione, il sonno e la protezione dai predatori.

Inoltre, l’illuminazione notturna delle nostre città (e non solo) costa miliardi ogni anno, oltre ad essere un danno dal punto di vista ecologico. Secondo l’International Dark-Sky Association, il 35% di tutta l’illuminazione esterna è sprecata a causa degli impianti che disperdono la luce verso il cielo. Il costo totale di questo spreco ammonta a circa tre miliardi di dollari ogni anno solo negli Stati Uniti.

In più, vengono emesse milioni di tonnellate di diossido di carbonio per produrre l’energia necessaria per questa illuminazione, con un risultato catastrofico per l’ambiente. Oltre al fatto che molti di noi non hanno più il piacere di vedere il cielo stellato (e vi assicuro che il cielo senza inquinamento luminoso è uno spettacolo da togliere il fiato – da me visto nel ’93 in Mozambico, nda).

Quello a cui stiamo assistendo adesso nella trasformazione della società e nel rapporto che c’è tra notizia, pubblicità, media ed il consumatore è esattamente la stessa cosa: la corsa alla notizia, senza verificarne la fonte, o la pubblicità ossessiva, perché se non compri quel prodotto non meriti di far parte della società, sono esattamente una sorta di inquinamento mediatico.

È una sovraesposizione a un flusso di notizie continuo, che la pandemia ha solo accelerato, ma che era già in corso negli anni precedenti. Il problema di fondo, così come l’inquinamento luminoso non ha solo una conseguenza, è che questa sovraesposizione colpisce persone di tutte le età, professionisti dell’informazione e no, e fasce della popolazione con alti e bassi livelli di istruzione.

“La maggior parte di noi non capisce ancora che le news stanno alla mente come lo zucchero sta al corpo” scriveva sul Guardian nel 2013 l’imprenditore svizzero Rolf Dobelli, autore del libro “Smetti di leggere le notizie”.

Una delle differenze più chiare tra piattaforme digitali moderne e i canali di informazione tradizionali come la televisione e la radio, è che il consumatore di notizie non è più un “ricevitore passivo”. Il problema è che l’attività (di risposta) conseguente è spesso sbagliata, e ci si ritrova come a correre su un tapis-roulant: ci si stanca, ma si è sempre nello stesso posto.

Io credo che i professionisti dell’informazione, così come chi li governa (e chi governa il Paese, ovviamente), debbano fermarsi, fare una pausa, e chiedersi, come ha fatto quel mio amico:

“ma è davvero questo, il mondo che vogliamo lasciare ai nostri figli?”.

Intanto i giornali stanno morendo, il giornalismo pure, e anche io non mi sento tanto bene.

“È straordinario che ogni giorno nel mondo succedano esattamente le notizie che ci stanno in un giornale”. Jerry Seinfeld

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5 pensieri riguardo “Inquinamento mediatico

  1. L’ha ripubblicato su Gianluca di Castri (IdeaConsult)e ha commentato:

    Articolo ben fatto, anche se un po’ confuso nel finale. A questo punto sarebbe necessario comprendere cosa vogliamo per il futuro, personalmente credo che la chiave non sia in un controllo dell’informazione bensì nell’educazione degli utenti. In definitiva, il citato articolo 21 parla del diritto di manifestare il proprio pensiero, ma non stabilisce alcun obbligo di dare ascolto a tutte le assurdità che vengono diffuse. L’informazione deve essere libera, fatto salvo il caso di “informazioni tendenziose atte a turbare l’ordine pubblico” o “contrarie alla legge ed alla morale” e per ottenere ciò si dovrebbe anche eliminare la strisciante censura della “correttezza politica” . Ciao, Francesco.

    Piace a 1 persona

  2. Articolo ben fatto, anche se un po’ confuso nel finale. A questo punto sarebbe necessario comprendere cosa vogliamo per il futuro, personalmente credo che la chiave non sia in un controllo dell’informazione bensì nell’educazione degli utenti. In definitiva, il citato articolo 21 parla del diritto di manifestare il proprio pensiero, ma non stabilisce alcun obbligo di dare ascolto a tutte le assurdità che vengono diffuse. L’informazione deve essere libera, fatto salvo il caso di “informazioni tendenziose atte a turbare l’ordine pubblico” o “contrarie alla legge ed alla morale” e per ottenere ciò si dovrebbe anche eliminare la strisciante censura della “correttezza politica” . Ciao, Francesco.

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